lunedì 21 marzo 2016

Eugenio Montale - "Ho sceso dandoti il braccio"

Genovese Montale ha attraversato la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Prima da soldato, la Seconda da testimone della tragedia. Ha esordito cantando il paesaggio ligure e la sua terra salmastra, bruciati dal sole: nell'epoca del Fascismo trionfante, era un modo per prendere le distanze dai miti e dalle certezze del tempo. Gli anni Trenta, trascorsi a Firenze, lo hanno messo in contatto con i giovani poeti fondatori dell'Ermetismo. Dopo il 1945, lavorando a Milano come giornalista del Corriere della Sera, Montale ha preso posizione contro la massificazione della società e della comunicazione. Non ha mai rinunciato al ruolo scomodo di coscienza critica e di osservatore delle storture presenti. Ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura.
Il primo Montale si stacca nettamente dalla tradizione letteraria, scegliendo per i suoi versi d'esordio uno stile scabro ed essenziale quale corrispettivo dell'aridità esistenziale e del male di vivere. Il secondo Montale utilizza uno stile denso e simbolico: da qui la difficoltà della lettura che suscitano molte sue liriche, gremite di cose e situazioni poco leggibili, in prima battuta, dal lettore. L'ultimo Montale è quello satirico: in un mondo inautentico, egli sceglie di utilizzare un linguaggio impoetico, che possa evidenziare, paradossalmente, tutta l'inautenticità della comunicazione originata e vissuta nella sfera dei mass-media.

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

                                   Da Satura


Commento:
Montale ha percorso insieme alla moglie un lungo e intenso viaggio: il viaggio della vita. Ora la donna è morta e il poeta avverte un gran vuoto intorno a sé; quel viaggio, guardato a ritroso, fu davvero troppo breve. Il poeta e la moglie hanno camminato accanto, sono saliti e scesi insieme per milioni di gradini. Apparentemente la più debole era lei, ma adesso che non c’è più, Montale si accorge che le cose stavano diversamente: infatti la realtà non è quella che si vede (v.7). Malgrado la miopia, tra i due sposi era proprio “Mosca” a vederci meglio e a condurre il marito nel viaggio della vita.
L’azione di scendere le scale è un’operazione comune, ma che richiede vista buona, altrimenti si rischia di cadere nel vuoto, che diventa metafora di un’esistenza priva di punti di riferimento. Adesso che la sua “Mosca” non c’è più, il poeta vive l’esperienza amara di un vuoto radicale. Per riempirlo non basta avere una vista acuta; bisogna saper riconoscere la realtà che si cela dietro le apparenze.
Ecco perché la moglie manca tanto al poeta: fra i due era proprio lei la sola in grado di vedere. In un mondo dove le cose vanno a rovescio, appunto la Mosca, umile insetto della casa e miope com’era, sapeva muoversi a suo agio nel viaggio della vita.

Attraverso la metafora del viaggio, Montale ribadisce la propria concezione dell'esistenza: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità (coincidenze e prenotazioni), insidie e delusioni (trappole e scorni), ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l'uomo.